Gaza e i principi a singhiozzo: la legge internazionale non è uguale per tutti

Da “il Manifesto” del 12-8-2022

 Gaza e i principi a singhiozzo: la legge internazionale non è uguale per tutti

Nessun
missile è stato lanciato verso Israele nei giorni antecedenti ai raid
contro la Striscia. Eppure questi ultimi sono stati presentati come
«attacchi preventivi», una giustificazione lacunosa secondo il diritto
internazionale e dalla prospettiva di chi ritiene che i principi vadano
applicati in modo equo a tutte le latitudini. E irricevibile, se non
immorale, quando applicata ad altri contesti, a cominciare da quello
ucraino 

di Lorenzo Kamel (Direttore editoriale dell’Istituto Affari Internazionali)

 

 La
città di Gaza, tornata in questi giorni sotto i riflettori dei media
internazionali, è menzionata nelle iscrizioni del faraone egiziano
Thutmose III (1481 a.C.). Circa 2700 anni più tardi, il celebre
viaggiatore tangerino Ibn Battuta visitò la città e scrisse che Gaza «è
un luogo di ampie dimensioni, con molti edifici (
kathirat al-imara) e attraenti mercati. Contiene numerose moschee e non ha alcun muro intorno a essa (la sur ’alayha)».

Dalla
prospettiva degli attuali due milioni di abitanti della Striscia di
Gaza, la testimonianza di Ibn Battuta suona beffarda: i muri scandiscono
ogni aspetto delle loro vite. Si tratta di una popolazione in larga
parte composta da famiglie di profughi. Molte furono espulse nel 1948 da
Najd, Al-Jura e al-Majdal – odierne Or HaNer, Sderot e Ashkelon,
quest’ultima, una città di origini canaanite, includeva fino al 1948
al-Majdal – e trasportate con autobus nei campi e nelle città che
compongono l’odierna Striscia di Gaza.

Il
51% degli abitanti ha meno di 15 anni: ciò significa che nel 2006,
quando Hamas vinse le elezioni, più di metà della popolazione non era
ancora nata (l’asfissiante blocco di Gaza risale al 2007, ma l’area è
sotto controllo israeliano da 55 anni).

TANTO I GIOVANI –
l’85% dei quali soffre, stando a un nuovo rapporto di Save the
Children, di depressione e ansia – quanto i più anziani, sono costretti a
utilizzare un’unica, inquinata, falda acquifera e a vivere in uno stato
di completa dipendenza che include, tra molto altro, i registri
demografici (anch’essi controllati da Israele) e la moneta usata (lo
shekel).

Fatto salvo questo retroterra, è opportuno notare che l’offensiva contro Gaza – costata la vita a 47 palestinesi (comprese donne e numerosi bambini) e a cui è seguito il lancio di 580 razzi palestinesi verso le città israeliane – è
avvenuta a pochi giorni di distanza dall’esercitazione congiunta
compiuta nel deserto del Negev dall’Israeli Air Force e dall’Aeronautica
militare italiana (con quattro caccia F-35),
 nonché a meno di tre mesi dalle elezioni previste in Israele (primo novembre).

Alcuni
analisti hanno notato che l’operazione militare permette al premier
Yair Lapid, sprovvisto di un background militare, di accreditarsi come
leader forte. Altri, come il giornalista israeliano Meron Rapoport,
hanno sostenuto che «Israele ha punito il Jihad Islami per non aver
reagito all’arresto di (un loro leader, Bassam) al Saadi», avvenuto nel
corso di un blitz compiuto nel campo profughi di Jenin lo scorso 2
agosto e costato la vita a un 17enne palestinese.

Al
di là delle diverse interpretazioni, risulta acclarato che nessun
missile è stato lanciato verso Israele nei giorni antecedenti ai raid
contro Gaza. Eppure questi ultimi sono stati da più parti presentati
come «attacchi preventivi»: una giustificazione lacunosa secondo il
diritto internazionale e l’articolo 51 della Carta delle Nazioni unite,
che consente l’uso della forza militare solo in risposta a «un attacco
armato».

IN UN SERVIZIO del Tg1,
ad esempio, è stato fatto presente che Israele ha lanciato «un attacco
contro la jihad islamica per prevenire un attacco sul proprio
territorio», mentre il 
New York Times ha
sostenuto che «i bombardamenti hanno colpito appartamenti residenziali e
torri di avvistamento, uccidendo almeno dieci persone tra cui una bimba
di cinque anni».

Va detto che siffatte argomentazioni sono sovente considerate irricevibili, se
non immorali, quando applicate ad altri contesti, a cominciare da
quello ucraino, come peraltro confermano le recenti polemiche seguite
alla pubblicazione del rapporto di Amnesty International dello scorso 4
agosto
.

Tale
rapporto, oltre a rimarcare in maniera netta l’esistenza di un
aggressore (la Russia) e di un aggredito (l’Ucraina), si è soffermato
sul fatto che «le tattiche di combattimento ucraine mettono in pericolo i
civili», ovvero ciò che viene abitualmente imputato ad Hamas per
giustificare l’ampio numero di civili uccisi nei bombardamenti sulla
Striscia di Gaza.

Il
rapporto di Amnesty è stato prontamente stigmatizzato dal presidente
ucraino Zelensky, il quale ha scritto che questo promuove una «immorale
selettività». Dalla prospettiva di quanti ritengono che i principi nei
quali crediamo debbano essere applicati in modo equo a tutte le
latitudini
,
appare tuttavia significativo che il primo gennaio 2020 lo stesso
Zelensky abbia ritirato l’adesione dell’Ucraina dal Comitato delle
Nazioni unite per l’esercizio dei diritti inalienabili del popolo
palestinese
.

UN ANNO e
cinque mesi più tardi, nel pieno della cosiddetta «crisi
israelo-palestinese del 2021», costata la vita a nove ebrei israeliani
(inclusi due bambini) e 256 palestinesi (tra cui 66 bambini), il
presidente ucraino scrisse un tweet nel quale sottolineava che la sola
tragedia ravvisabile nel contesto della guerra nella Striscia di Gaza
era quella patita da Israele, il cui cielo era «disseminato di missili».

Non
una sola parola venne riservata dal presidente ucraino ai palestinesi,
indipendentemente da quale fosse il lembo di terra tra il fiume Giordano
e il Mar Mediterraneo nel quale essi si trovassero.
 Ciò
rappresenta un’ulteriore conferma del fatto che i doppi standard e i
principi a singhiozzo sono sempre più parte integrante del mondo, spesso
«capovolto», nel quale ci troviamo a vivere.


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